All’interno del Parlamento inglese si dovrà a breve discutere di una nuova proposta di legge presentata dal Ministro per la Proprietà Intellettuale Baroness Neville-Rolfe, a seguito di varie consultazioni con il proprio dipartimento e dopo uno studio commissionato nel 2015 dallo UK Intellectual Property Office (IPO).
L’idea sarebbe fondamentalmente quella di innalzare la pena per la violazione di copyright, e di conseguenza per la pirateria, dagli attuali 2 anni ai 10 anni di carcere.
Il fine è quello di mettere in atto un deterrente che scoraggi il download illecito di film, musica e ovviamente videogiochi, a difesa della proprietà intellettuale e del mercato dell’intrattenimento, che valgono per il solo Governo inglese più di 7 miliardi di Sterline. Una presa di posizione piuttosto comprensibile.
Il Ministro ha però tenuto a precisare che ad essere colpiti saranno solamente i grandi smistatori di file protetti da copyright, senza notevoli provvedimenti verso i singoli utenti fintanto che la mole di dati trafficati non sia eccessivamente alta.
In terra UK è sempre stata molto a cuore la materia digitale, e potremmo definire il Governo Inglese decisamente avanguardistico in quanto costantemente attivo sul fronte Internet, informatico e via dicendo. Considerando poi che i danni a questo tipo di industria sono ogni anno più che ingenti, insieme ad una superficialità largamente diffusa, l’asprezza di queste misure da un certo punto di vista possiede un proprio senso.
Ma da un altro non molto.
Ogni videogiocatore un minimo cosciente, o che perlomeno abbia chiara la concezione dei videogiochi innanzitutto come prodotti commerciali, prima ancora che un passatempo, sa bene che qualsiasi mercato o industria soffre un danno economico ogniqualvolta uno di questi prodotti venga acquisito senza aver ripagato il processo di produzione o, per farla semplice, aver dato da campare agli sviluppatori.
Sia chiaro che non voglio fare l’occhiolino a quelle orribili pubblicità-progresso in stile grunge/underground anni ’90 di come se ne trovavano prima dei film dentro DVD e VHS (“Non scaricheresti mai la mamma di un tuo amico”, una cosa del genere insomma), nè voglio paragonare il mettere in coda il primo torrent di Collofdiutibleccopstre che ti capita in mano al taccheggiamento nei supermercati (anche se giocare con troppa frequenza a titoli mediocri è allo stesso modo moralmente discutibile *coff* *coff*). Quello che voglio dire è che, sì, spot pubblicitari platealmente esagerati a parte l’intera industria videoludica risente sul lungo termine di tutti questi download non autorizzati, e lo stesso vale per musica, film, serie televisive o qualsiasi altra opera d’intrattenimento al quale sviluppo delle persone hanno dedicato il proprio lavoro.
Le discussioni riguardo la libertà di sharing online e i relativi diritti o doveri dell’utente sono molte e sempre lo saranno. Il fatto che io abbia ben presente le conseguenze di tali azioni non significa tuttavia che concordi con una pena così ponderosa. In merito ci sarebbe da fare più di una speculazione di materia giuridica, etica e legislativa, ma ci basterà pensare allo scopo fondamentale di qualsiasi provvedimento giudiziario, sia esso il carcere o una semplice multa. Senza necessariamente far scomodare Cesare Beccaria, possiamo dire che il fine di un’ammenda è quello di scongiurare, punire e riabilitare. È importante che i cittadini siano scoraggiati dalle conseguenze affinchè non commettano crimini, e questo è sostanzialmente lo scopo dei famigerati 10 anni di carcere, ma il criminale ha diritto anche ad una pena commisurata al reato, in modo che poi possa essere adeguatamente riabilitato.
Trattare alla stregua di uno stupro o, in alcuni casi, di un omicidio un reato commerciale, per quanto questo possa essere vasto, sembra più una decisione mossa dalle pressioni delle major corporations piuttosto che dalla causa di giustizia in sè. Senza contare che gruppi di cracker come Skidrow, o i grandi torrent sites tipo Kickass, devono il proprio successo alla fitta rete di condivisione che sostanzialmente si autosorregge. Andare a colpire uno dei membri significherebbe colpire automaticamente anche tutti i (molti) altri; perciò, ditemi, quali criteri verranno adottati nell’attribuzione delle responsabilità penali tra i singoli criminali? E quanto sarà sottile il margine di colpevolezza, contando che alcuni sono semplici collaboratori?
I dettagli per ora non sono del tutto noti, e come spiegato la proposta è ancora in fase di elaborazione, dunque tutti questi dubbi potrebbero semplicemente sparire da un momento all’altro. È però interessante notare come, anche con fenomeni digitali in stile Steam, Spotify o Netflix che danno ormai a tutti la possibilità di fruire gigantesche moli di contenuti con un esiguo esborso di denaro, si sia presentata la necessità di agire direttamente per vie giudiziarie riguardo la pirateria informatica.
Personalmente penso che la consapevolezza in questo ambito sia, per ovvi motivi, ancora poca, ma forse con la graduale digitalizzazione della nostra realtà quotidiana arriveremo inevitabilmente a prendere atto di azioni del genere, sia con le buone che (speriamo di no) con le cattive. E magari delle campagne di vera sensibilizzazione potrebbero aiutare.
Anche se, voglio essere sincero, preferirei farmi 10 anni di carcere piuttosto che vedere ancora una volta quelle pubblicità.
Davvero un ottimo articolo, concordo in gran parte con quanto hai scritto: molto riflessivo 😀