Alcuni li chiamano “Art Game” e fanno benissimo. Io preferisco il termine “Avventura Grafica Esplorativa”, definizione che tra le altre cose ha fatto il giro dell’Italia unita, tantè che ormai la ritrovo in molto siti di disinformazione videoludica (mai fidarsi di siti all’infuori di Projectnerd). Io amo le avventure grafiche esplorative, poiché penso siano l’esempio perfetto di una ricerca d’espressione artistica iniziata decenni addietro e culminata in questi anni, ove le nuove tecnologie e soprattutto un rinnovato mercato videoludico che sempre più lascia spazio ai giochi indipendenti, hanno permesso uno sviluppo nuovo e libero del videogioco.
Sono in molti a pensare che l’idea di un gioco in cui vi sia un punteggio da battere con boss annessi sia qualcosa di ormai vecchio e superato, una corrente di pensiero tra le altre cose descritta in “Textural Videogames” di Paolo Branca, che afferma come sia ora che il pubblico vidoeludico inizi a pensare al videogioco non più come forma di intrattenimento artistica, bensì come opere d’arte in senso più avanguardistico ed espressivo.
Sviluppato da Fullbright Company e pubblicato dalla stessa nel corso del 2013, Gone Home fa testo di essere una delle prime avventure grafiche esplorative moderne, ovvero quelle opere d’arte che vanno a indagare nell’animo umano per scoprire nuovi anfratti della nostra personalità. Prima di giocarlo e di spulciarlo per bene, avevo sentito e letto recensioni e opinioni molto positive al riguardo, ma il solo fatto che ad affermare positività e gioia erano gli stessi che elogiavano Call of Duty: Modern Warfare 3 come il miglior sparatutto di sempre mi preoccupò e non di poco.
Effettivamente avevo ragione.
UN SENTIMENTO CHE NON ARRIVA
Per quanto riguarda il mio pensiero, una avventura grafica esplorativa deve necessariamente concentrarsi su un tema logico ed evocativo da ricercare mediante il videoludo stesso. Nel caso di Layers of Fear si tratta di essere una indagine nella mente di un folle artista alla ricerca estenuante dell’opera d’arte perfetta, mentre in Life is Strange si fa di tutto per colpire i nostri ricordi e indagare nelle nostre reazioni ed emozioni. L’intento di Gone Home è invece quello di raccontare una semplice storia fatta di ricordi ed esperienze passate, nel tentativo di rapire il giocatore con rimandi alla cultura pop mediante storielle create in modo tale da essere compatibili con la vita passata di tutti noi.
Siamo ad Arbor Hill, nell’Oregon. La protagonista dopo aver trascorso diverso tempo in Europa, decide di tornare a casa, scoprendo a suo malgrado che tutti i suoi familiari sono spariti. Si scopre che sua sorella, Samantha, non vuole assolutamente che noi indaghiamo in alcun modo su cosa sia effettivamente accaduto nell’abitazione pertanto, invece di chiamare spaventati la polizia e denunciare la scomparsa dei nostri cari, decidiamo di entrare in casa e ficcare il naso un po’ ovunque per capire la situazione.
Il plot narrativo di Gone Home fa ovviamente da scenario, e anzi, da causa all’intera vicenda che lega Kaitlin Greenbriar al suo turbolento passato vissuto proprio nelle mura della grande casa ereditata da un suo ricco zio scomparso (nel senso di morto). La logica narrativa nelle avventura grafiche esplorative non è una vera prerogativa e messo piede nella casa si comprende subito di essere davanti a un percorso emozionale guidato piuttosto che a qualcosa di più ricercato. Una premessa che dovrebbe farmi felice istantaneamente, ma che invece non mi ha convinto appieno.
UNA CASA VUOTA
Il gameplay di Gone Home ruota attorno ai ricordi della protagonista, la quale trovando oggetti sparsi per la casa inizia a raccontarci i suoi ricordi mediante la tecnica del diaologo interiore. Tuttavia a raccontare davvero le vicende del suo passato, non sono tanto le sue parole, bensì gli oggetti che compongono l’arredamento casaligno della villa americana, il quale ci comunica molto di più della vita di coloro che roteavano attorno a Kaitlin rispetto a quanto raccontato dalla stessa. Il diaologo interiore viene infatti attivato tramite il ritrovamento di oggetti speciali, i quali in ogni caso non sono evidenziati. Il designer della produzione si è però impegnato molto e si riesce a intuire il percorso da intraprendere per progredire nel percorso di ricordi della ragazza con intuitività.
Ciò che ritroveremo è quindi uno scenario tipicamente anni ‘90, in cui la nostalgia della protagonista si mischia assieme a quella del giocatore, che non può che non provare empatia nei confronti dei grandi poster dell’epoca nonché di fronte alle creazioni tecnologiche dello strano decennio, tra cui gli enormi televisori a tubo catodico e le audiocassette, le quali ci riporteranno indietro di svariati anni in cui una penna anche non funzionante poteva salvarci da un pomeriggio noioso da un pomeriggio pieno di musica.
Sembra però che Gone Home si concentri molto sul tratteggiare la cultura dei 90s cercando di trovar empatia con il giocatore con la ricerca dell’oggettistica tipica del tempo, senza però realmente curarsi di trasportare il giocatore in una vera tempesta emotiva che avrebbe reso Gone Home un capolavoro. Osservare la strana tecnologia di quei tempi senza che il suo impatto nostalgico venga in qualche modo enfatizzato, rende il tutto sterile e freddo al punto di diventare a tratti noioso. Di fatti penso che le storie raccontate da Kaitlin siano poco interessanti, poiché molto superficiali e a tratti disconnesse. Ciò mi ha portato a non entrare in sintonia con la produzione americana, nonché a non provare alcuna emozione per quello che vedevo, forse a causa di una direzione artistica molto basilare incapace di trasmettere vere emozioni e sensazioni, risultando fredda e poco credibile.
TEMI CALDI IN STAGIONI FREDDE
Gone Home come ogni avventura grafica esplorativa è per definizione coraggiosa e avanguardistica. Le storie della protagonista, per quanto superficiali o poco dettagliate, vanno a toccare temi caldi e a tratti provocanti, come l’amore verso un essere del proprio sesso (omosessualità), il sacrificio per il successo, la tenacia di mantenere le proprie idee e lo scontro tra genitori e adolescenti. Il tutto viene citato e argomentato con sufficienza, anche se la scrittura dei vari dialoghi non eccelle per emotività ed empatia. E’ interessante osservare la posizione degli sviluppatori, che per i temi più caldi si dimostrano moderni e molto aperti, anche se sembra più una questione di bellezza strutturale che di manifestazione di vere idee covate dallo studios. Tuttavia per alcuni può risultare addirittura disturbante, ma questo è anche il ruolo delle avventure grafiche esplorative: trascendere i canoni del videoludico per divulgare idee forti nel mondo.
IN THE CONCLUSION
Le avventure grafiche esplorative sono e sempre saranno prodotti eccellenti. Ho un metro di giudizio speciale per queste produzioni ed è un metro di giudizio molto severo. Certamente l’avventura grafica esplorativa peggiore sarà sempre migliore di qualsiasi altro videogioco e per Gone Home non penso che io abbia goduto dell’esperienza peggiore, ma nemmeno della migliore. Sembra che sia stato sviluppato nella forma di avventura grafica esplorativa poiché altro modo non c’era per raccontare una storia del genere, ma il tutto risulta freddo e artisticamente poco ispirato, il che mi porta a consigliare il titolo per passare una piacevole oretta di gameplay ai più intelligenti, mentre lo consiglio caldamente a tutti coloro che possiedono idee antiche e molto chiuse: Gone Home vi farà urlare di rabbia.
In Breve
Gone Home è un titolo intelligente che utilizza intelligentemente il genere dell’avventura grafica esplorativa per raccontare una storia interessante, provocatoria, supportata però da una direzione artistica poco ispirata, lasciata all’essenziale. E’ un titolo assolutamente da giocare, ma se siete cultori di questo bellissimo genere videoludico, troverete un po’ di sterilità. Per tutti gli altri, l’acquisto è obbligatorio.