E’ da circa un decennio che quando mi ritrovo davanti a un gioco Capcom non riesco a trattenere strane smorfie di leggero ribrezzo. La società nipponica negli ultimi dieci anni non si è comportata affatto bene e forse ben gli stanno le poche vendite degli ultimi videogiochi sviluppati. Giochi come Street Fighter 5, Resident Evil 6 e Operation Raccoon City hanno in qualche modo offuscato una software house e un publisher che in passato puntava esclusivamente sulla qualità e sull’innovazione. In realtà le cose non sono poi così cambiate perché Capcom, la qualità, l’ha sempre perseguita: semplicemente non la promuoveva. Certo: l’allontanamento di Keiji Inafune nonché quello di Hideki Kamiya hanno davvero pesato sulla reputazione della società giapponese la quale, per un breve periodo, ha davvero rischiato la bancarotta.
Tuttavia i giochi sono usciti e non si può dire fossero di qualità scarsa, a partire dal controverso Devil May Cry (quello del 2013), prima demonizzato e successivamente idolatrato dalla grande schiera di fan, fino ad arrivare a Resident Evil: Revelations, ai diversi Marvel vs Capcom e al bellissimo bellissimo Dragon’s Dogma. Tuttavia, piuttosto che promuovere questi bellissimi prodotti, Capcom era impegnata ad affermare come volesse far diventare Resident Evil il nuovo Call of Duty, facendo sprofondare la società in un baratro reputazionale e divenendo celebre per compiere azioni sempre contrarie al volere pubblico. Il risultato è quindi semplice: pochissime vendite e conti in rosso. Quindi, come risolvere la situazione? In un solo modo: fermando lo sviluppo di ogni progetto attualmente in produzione e tornare alle origini, quelle vere.
Ed ecco come è nato Resident Evil 7, per molti (e forse anche per me) un vero e proprio reboot. Nonostante sia un sequel, ovviamente.
LA MERAVIGLIA DELLA SCOPERTA
Sinceramente decisi di acquistare RE7 subito dopo aver provato la DEMO distribuita in digitale successivamente all’E3 2016. Nonostante le grandi polemiche che si possono trovare in giro per il web, io rimasi totalmente estasiato dalla scelta di Capcom di portare alle origini l’intero brand. Probabilmente in questo momento mi state prendendo per pazzo. Insomma: Resident Evil 7 è in prima persona e tutti sanno che il primo Resident Evil divenne celebre anche grazie alla sua regia fissa in terza persona composta da videocamere dalla porzione video discutibile. Come può un gioco in prima persona essere percepito come un ritorno alle origini se l’origine proponeva una base di gameplay completamente diversa?
Io la vedo così: Resident Evil è una serie che sin da subito si è imposta per essere assolutamente sperimentale. La regia fissa, il gameplay horror fino al motore grafico da fantascienza sono state le vere locomotive di un successo inarrestabile, soprattutto su Playstation 1. Pertanto “sperimentare” è un dogma tipico di Resident Evil quindi, il solo fatto di voler sperimentare con la visuale in prima persona in questo RE7 risulta, a tutti gli effetti, un ritorno alle origini non tanto per il gameplay, bensì per la filosofia di sviluppo, secondo me ben più importante di rievocare vecchie scelte di design.
Sta di fatto che l’idea di portare tutto in prima persona funziona benissimo. Per quello che mi riguarda, Capcom è riuscita a combinare la sperimentazione tipica dei giochi indipendenti con la qualità che solo uno studios ad alto budget potrebbe garantire. Quello che ne è uscito è un gioco studiato sin nei minimi dettagli, che funziona benissimo e che coinvolge dall’inizio alla fine, senza mai annoiare. Tutto è al posto giusto e soprattutto sembra che ogni pixel sia stato studiato per rimanere in armonia con tutti gli altri formando un tessuto virtuale davvero splendido. La qualità si percepisce sin dai primi tremanti passi.
IL TRUCCO E’ LA PAURA
Il concetto di “ritorno alle origini” non è però circoscritto alla sola filosofia di sviluppo. In realtà anche il gameplay per certi versi richiama il primo leggendario capitolo, tra le altre cose citato più volte nel corso del gioco. Nella temibile avventura non ci si ritrova a sparare a migliaia di zombi pronti ad attaccarci con armi da fuoco o barili infiammabili come accadeva nel quinto Resident Evil, ma saremo noi contro un piccolo manipolo di persone. Il vero nemico è quindi la paura, la paura di essere osservati e di essere in costante pericolo. Tutto questo prende il nome di “Scopofobia”, nel mondo videoludico già presente in titoli quali Outlast e il più recente Layers of Fear, che nel caso di Resident Evil 7 fa davvero la sua porca figura.
Concettualmente il gameplay si basa su un “corri e scappa c’è il nemesis” perpetuo, che costringe il giocatore a pesare ogni mossa e soprattutto a essere terrorizzato da ogni angolo buio della casa in cui il protagonista è finito. Proprio come accadeva nei primi tre Resident Evil. La storia è infatti semplice: Il protagonista scopre, dopo ben tre anni, che la sua ragazza scomparsa è ancora viva ed è segregata in una casa sperduta. Da bravo e stupido eroe decide di salvarla e di intrufolarsi nell’abitazione in cui l’amata “alloggia” e nonostante scopra che è infestata da un una famiglia di personaggi folli e violenti e che tali hanno la volontà di farlo a pezzettini, invece che scappare da una delle tante finestre rotte della casa (o da una delle porte non blindate della stessa), decide di inseguire la sua ragazza nel tentativo di salvarla. Una trama nonsense tipicamente giapponese, che in realtà regala punti di forza assai interessanti, a partire dai personaggi davvero carismatici.
La vera protagonista della vicenda è però la casa della famiglia “Baker”, grande, spaziosa e soprattutto piena di cunicoli segreti. Il level design rasenta la perfezione ed è sempre una goduria emotiva percorrere gli strani corridori dell’abitazione. Tutto è stato pensato per essere collegato e ci si stupisce spesso di come gli sviluppatori siano riusciti a collegare tutte le stanze della casa facendo percorrere al giocatore un percorso logico e soprattutto progressivo. Se vi ricordate, anche il primo Resident Evil proponeva l’esplorazione di una grande casa le cui stanze, alla fine, comunicavano tra loro grazie a piccole porticine apribili con strane chiavi a forma di “cattivi animali” e anche in questo settimo capitolo le cose non cambiano. Sono anche vari gli enigmi che vanno a citare la prima produzione zombesca di Capcom, a partire dalla porta apribile soltanto da tre teste di cane.
Ad ogni intenditor..
FAMMI CAPIRE UNA COSA
Il senso di progressione in questo settimo capitolo è davvero totale. Il protagonista cresce in relazione alle conoscenze del giocatore che pian piano studia l’abitazione riuscendo, nelle fasi avanzate di gioco, a ricordare percorsi e stanze salienti. Il gameplay scopofobico ben si sposa con armi improvvisate e caricatori quasi sempre vuoti. Le armi da fuoco sono infatti preziosissime e gli scarseggianti proiettili vanno utilizzati con parsimonia. Da segnalare è la presenza delle solite piantine utili a curare il personaggio, mentre un sistema basilare di crafting permette al giocatore di creare cure più efficaci e anche proiettili e risorse di vario tipo.
La scarsità di risorse è ovviamente alla base dell’effetto orrorifico dell’intera produzione. Ritrovarsi a combattere nemici armati fino ai denti non è affatto pauroso, ma dover affrontare uno zombie dalla forza esplosiva con solo un coltellino e una manciata di proiettili..lo è. Contrariamente a come si potrebbe pensare, le situazioni in-game sono tantissime e ben diversificate. L’esperienza Capcom qui si fa davvero sentire dato che Resident Evil 7, nel mio caso, non mi ha mai annoiato, anzi. Il prosieguo della trama fila liscio e con un minimo di logica, ma il tutto si dimostra intrigante e soprattutto sorprendente per come ogni tassello riesce effettivamente a incastrarsi con gli altri. La mia sezione preferita? La festa di un certo Lucas.
In ogni caso il tutto è sorretto da un motore grafico potente e leggero allo stesso tempo. Per come riesce a gestire i poligoni a schermo mi ricorda moltissimo l’Unity Engine e chissà che Capcom non l’abbia preso come base per il suo nuovo motore grafico. Sta di fatto che Resident Evil 7 risulta essere dettagliatissimo e sicuramente una avanguarda per quanto riguarda la direzione tecnica. Ogni modello in-game è estremamente dettagliato, ma quello che più sorprende è constatare come ogni oggetto in-game sia frutto di una modellazione poligonale e non di una texture in due dimensioni. Il risultato è una interazione totale con l’ambiente, che rende ancor più immersiva e sorprendente l’intera esperienza. A far la parte del leone è però la direzione artistica, davvero ispirata e avvolgente e capace di sorprendere con alcuni scorci davvero suggestivi. Questo grazie anche a un sistema di illuminazione potente ed efficace che permette al gioco di essere ancor più spaventoso di quello che dovrebbe essere. E fidatevi: funziona davvero.
IN THE CONCLUSION
Penso di aver scritto abbastanza riguardo a Resident Evil 7. A me è piaciuto moltissimo, mi è piaciuta la direzione artistica e mi è piaciuto soprattutto il gameplay. Penso che Capcom abbia davvero azzeccato con questo settimo capitolo mettendo in campo tutta la sua esperienza per confezionare il Resident Evil moderno definitivo, quello capace di citare il passato senza dimenticare di pensare al futuro.
Sperimentale, coinvolgente, ben fatto: Resident Evil 7 è davvero un capolavoro, di quelli che Capcom da tempo non sviluppava. Forse qualcuno di voi leggendo questa recensione si è emozionato, altri invece si saranno arrabbiati. Il mio consiglio? Giocatelo. Perché come accaduto con Devil May Cry 2013, anche in questo caso ogni pregiudizio negativo nei confronti dei cambiamenti radicali presentati da Capcom non sono altro che pregiudizi fini a sè stessi.
Non ve ne pentirete.
Ah, una cosa: se siete dei tipi paurosi, su Amazon vi sono offerte per i pannolini Pampers: non si sa mai che vi servano.
Nel mio caso, ne ho utilizzati tantissimi: Resident Evil 7 fa paura, in tutti i sensi.
In Breve
Ho deciso di parlare dell’essenziale di Resident Evil 7 perché mi sembrava giusto sottolineare come questo settimo capitolo fosse improntato a un vero ritorno alle origini filosofico. Grafica da paura, level design perfetto, personaggi memorabili e un gameplay da sogno sono i giusti ingredienti per un impareggiabile capolavoro. Passerà sicuramente alla storia.