Una affermazione simile era stata affermata dal grande Ken Levine qualche anno fa. Il Game Designer americano affermò che i giochi single player erano morti in quanto, nel proseguire nella folle ricerca di modelli di business sostenibili, le profonde avventure in solitaria si sarebbero rivelate ben presto quelle meno lucrative e quindi condannate a rimanere in disparte.
Gli sviluppatori di videogiochi, si sa, non lavorano per la gloria. I grandi studios sono composti da decine, centiania e talvolta migliaia di persone che a fine mese devono essere pagate. Tuttavia sono tante le software house che creano veri e propri capolavori (investendo moltissimo in nuove tecnologie), che però, non riconosciuti come tali dal pubblico giocande, decadono nel limbo dei “dimenticati” determinando successivamente il fallimento d’impresa dello studios.
Tra queste realtà, fortunatamente ancora in vita, vi è Starbreeze Studios. Svedesi per definizione, la loro storia è punteggiata da grandi capolavori per lo più dismessi. Tra i più eclatanti ricordo The Chronicles of Riddick: Escape from Butcher Bay, gioco stealth in prima persona dal game design perfetto e dal livello tecnico impressionante per l’epoca (Vin Diesel era il personaggio principale), The Darkness, sparatutto in prima persona basato sull’omonimo fumetto di Top Cow Production e dalla grande capacità emotiva e Brothers: A Tale of two Sons che ha fatto comprendere a tutti quanto un basso budget e un gameplay “semplicistico” potessero esprimere grandi emozioni. Tra le altre cose Starbreeze ha collaborato anche allo sviluppo di Wolfenstein: The New Order (e si vede).
Recentemente Almir Listo, esponente della Software House svedese, nel corso del Reboot Develop, una manifestazione europea simile alla GDC di San Francisco dai toni molto più artistici e pacifici tenutasi a Dubrovnik (Croazia), ha dichiarato parole poco felici nei confronti dei titoli single player, anche secondo lui incapaci di “pagare lo stipendio“:
Le parole di Listo sono forti e forse anche ciniche. Sottolineano però un andamento di mercato irregolare e forse anomalo. Perché a quanto pare i consumatori preferiscono spendere denaro per contenuti temporali (come double exp e boost del genere), piuttosto che spendere una cifra poco superiore per aggiudicarsi una avventura completa e soprattutto concreta e durevole nel tempo, che non scompare dopo un certo numero di ore.
D’altra parte però le grandi vendite di titoli single player quali Resident Evil VII, Uncharted 4 o anche il recentissimo Zelda: Breath of the Wild fanno intuire che le avventure in singolo sono in realtà ancora apprezzate, ma a quanto pare incapaci di garantire lunga vita alla software house responsabile. I costi di sviluppo si quadruplicano di anno in anno e ricercare nuove tecnologie così come nuove ambizioni narrative costa tantissimo in termini economici.
Ecco che allora una software house è portata a pensare di pancia, andando a giudicare cosa meglio o peggio garantisce la sua sopravvivenza. La risposta è quindi chiara: il multiplayer è la risposta a tutti i dolori finanziari di una casa di sviluppo. Listo (e anche Ken Levine), lo ha detto: i giocatori vogliono rigiocabilità, vogliono spendere denaro per migliorare le proprie statistiche e il proprio futuro in-game. Tutto questo assicura grandi introiti alle software house competenti e non sono in pochi ad aver scelto questo metodo di business. Alla fine anche grandi come Blizzard e Bungie (per quanto quest’ultima sia possibile da definire come “grande”), hanno scelto il multiplayer come unica forma di sviluppo.
Tuttavia una domanda sorge spontanea: ma davvero noi videogiocatori vogliamo tonnellate di esperienze ripetitive e mangiadenaro per saziare la nostra infinita fame di videogiochi?