Il cinema di Andy Warhol è l’essenza estrema della settima arte
Quando Andy Warhol passò da (immenso) illustratore a catalizzatore di un movimento artistico, il mondo dovette rifare i conti con la propria concezione di Arte, nel senso culturale del termine. L’ucraino, oltremodo ipocondriaco e oltremodo paranoico coi fatti di cuore e di sesso, mise in piedi una rivoluzione culturale basata, diciamolo senza sottintendere critiche, ma anzi, per elogiarlo ulteriormente, sul marketing senza scrupoli.
Andrew Warhola si presentò al mondo come una forma 2.0 di readymade, travestito da democratizzazione dell’arte e passato alla storia, almeno per i più attenti, come una sottile e meticolosa applicazione del capitalismo americano.
L’uomo, smisuratamente intelligente, con quel modo di fare che sembrava quasi trasposto dalle migliori invenzioni kosinskiane, piombò con la sua apparente alienazione nella scena underground newyorkese post Anni ’50, riuscendo a fare del proprio senso dell’umorismo e della praticità delle sue invenzioni un lasciapassare universale per tutto il meglio che da lì in poi il mondo dei salotti aveva da offrire. Sì, salotti, ma salotti che nel giro di dieci anni si sarebbero concentrati a tappo nel privée dello Studio 54, quasi a voler consacrare le conseguenze estreme di quello che la Pop Art aveva lanciato in commercio, come una bomba nucleare.
L’idea di Andy era un misto di virtuosismo daliniano, una rivisitazione industriale del dadaismo (oramai privato dell’intento provocatorio delle origini) e l’applicazione diretta del concetto di “democratizzazione dell’arte”. Tutto, ovviamente, in virtù della più nobile delle motivazioni: denaro. Accumulato grazie alla propria dote artistica, di cui Warhol è opulento, alla sua spiccata natura di affabulatore e ad un momento storico fertile e bisognoso di un Caravaggio dei nostri tempi, che sapesse tramutare il messaggio artistico in qualcosa di personale, popolare, accessibile a tutti e sopratutto che la facesse in barba ai mecenati.
Sulla base di queste motivazioni e di queste circostanze, anche se con una grande storta di naso, Andy Warhol è il miglior prodotto artistico/commerciale dei nostri tempi. Ha coniugato tutto: comunicazione, accessibilità, virtuosismo e capitalismo. La filosofia alla base della sua ricerca, più che altro economica, quindi speculatrice e approfittatrice dell’ignoranza popolare tipica dell’accesso al consumismo, era il rendere fruibile a tutti l’arte, intesa come presenza nella vita di tutti i giorni e non come comunicazione di una poetica “alta” in particolare.
Parafrasando il suo intento artistico, possiamo presupporre, senza margine di errore, che il pensiero sia stato il seguente:
Se io, cittadino semplice, ho accesso a tutto, perché non posso accedere anche all’arte? Perché non posso avere una riproduzione del mio dipinto preferito appeso alle pareti di casa? E nel caso io volessi sceglierne uno, perché dovrebbe per forza essere un soggetto difficile da comprendere e magari non la confezione di zuppa Campbells’? Proprio quella che mi piace tanto quando torno dal lavoro. Sì, voglio la zuppa appesa al muro, o magari una banana matura. Sono semplici, danno un tono all’ambiente e sono anche disegnati bene, in effetti mi ricordano tanto i fumetti che leggevo da ragazzino. Ho deciso, oggi esco, vado ai grandi magazzini e mi compro la riproduzione di quella banana disegnata da quel biondo strano, com’è che si chiama? Ah sì, Warhol. Non sarà mica ebreo o bolscevico? Chi se ne frega, disegna bene!
Da questo pensiero è nata la grande idea, rivoluzionaria, democratica, spudoratamente consumistica, di poter avere appesi ai muri Van Gogh, Hokusai, Da Vinci… e Warhol, il più furbo di tutti.
Se però questo intento ha necessariamente bisogno dell’arte per sopravvivere, dov’è che la Pop Art ha mantenuto un’originalità da pezzo unico? Molto semplicemente, il cervellone biondo, ogni volta che una tavola andava in stampa, prima di darla alla luce aggiungeva un piccolo dettaglio, che fosse una sfumatura, un puntino nero, una sbavatura, insomma, la minima stupidaggine che rendesse una produzione unica e per forza diversa dal suo gemello. Ecco il pezzo unico, nient’altro che un’imprecisione strategicamente messa lì a diversificare. In questo modo, tutti avrebbero avuto un originale per sempre diverso da quello del vicino di casa.
Questa era la sua poetica, o almeno quella dedicata alle arti visive, intese come similpittoriche. Per il cinema, invece, la produzione era tutt’altro che di questo avviso.
Il cinema di Andy Warhol non è Pop Art ma Video Art
Vi chiediamo di fare un piccolo sforzo, in nome dell’amore per la Storia dell’Arte. Per avere letteralmente uno stuzzichino, minimo, di cosa fosse il cinema per Warhol, aggiungete cinque minuti alla lettura dell’articolo e guardate quanto segue.
Questo estratto dura neanche cinque minuti. Lo standard warholiano per eccellenza era un contenuto statico, ripreso e distribuito con la durata di anche otto ore consecutive.
Sebbene Andy abbia emancipato la Pop Art come miracolo consumistico, il suo cinema ha un intento agli antipodi, anzi, è quasi autocritico, perché rappresentando una realtà più vicina alla fabbricazione ripetitiva e ossessiva che ad una vera e propria libertà di arbitrio, si tentò di lanciare una critica contro la civiltà del divismo e del consumismo. Praticamente un autocitazionismo al contrario.
Iniziando a produrli nei primissimi Anni ’60, ad un ritmo di uno a settimana, i film di Andy Warhol sono in 16 mm, bianco e nero e con un audio di pessima qualità. Tornano, specialmente agli inizi, indietro di settant’anni, ad uno stato primordiale del cinema in cui i soggetti sono talmente banali da risultare fuori contesto, senza un minimo di montaggio, con una durata, unica grande differenza dagli esperimenti delle vedute dei Lumière, di ore, ed ore, ed ore. Vengono girati a 24 fps e proiettati a 16fs, per demarcare ulteriormente l’assonanza col cinema delle origini.
L’opera magna che rappresenta l’essenza di questa produzione è Empire, del 1964, in cui un’inquadratura panoramica fissa riprende per otto ore consecutive, dal tramonto all’alba, l’Empire State Building. Il film è stato prodotto con l’intento specifico di confrontare tempo reale e tempo filmico. Rompe le convenzioni del ritmo cinematografico, mostra l’edificio come se fosse un quadro vivente, non appeso ma proiettato sul muro, talmente esasperato da divenire inespressivo.
In questi film, nonostante Empire, il soggetto principale è il fisico umano e i suoi bisogni, mostrati senza pudore. Il primo film girato da Andy è del 1963, si intitola Sleep e raffigura per quasi sei ore un amico mentre dorme, senza il minimo stacco di montaggio.
Il montaggio è stancante. Lascio che la cinepresa faccia il suo lavoro finché ha pellicola da impressionare. È il modo migliore per farmi guardare le persone per come sono realmente.
– Andy Warhol
Le persone di questi film hanno sempre a che fare coi bisogni primordiali, come in Blow Job, un semplice primo piano di un uomo intento a ricevere una prestazione orale, Nude Restaurant, forse il caposaldo dei contenuti tipici di questo cinema, in cui l’assenza di montaggio mostra personaggi nudi e spontanei, intenti a conviviare e praticare l’espressione dei propri bisogni, in maniera molto politica e contestatrice (siamo pur sempre nel 1967). Si cade, in questo caso come in tanti altri, oltre il limite tra erotico e pornografico, come in Couch, dove la ricerca dell’estremo induce la pellicola ad impressionare degli incontri casuali, avvenuti in assenza del regista, con la realizzazione di un video dove si conversa e si fa parecchio sesso.
Ma Warhol è così ed è stato un bene, perché ha dato alla luce un altro movimento artistico di matrice filmica, passato alla storia come VideoArt. È l’esasperazione dell’identità artistica del cinema, priva di una narrazione.
Essa si serve del mezzo di comunicazione per precise finalità comunicative, andando oltre la semplice documentazione della realtà. Intervenire sul reale, sulla sua percezione, divenendo la messa in discussione del ruolo dello spettatore, specialmente con le opere interattive. Si assiste ad un contenuto talmente intenso e chiaro, espresso in maniera così ossessiva, con o senza montaggio, da risultare straniante. Ciò che viene messo in mostra non è visto dallo spettatore, ma assistito, sei partecipe di un avvenimento, un happening, già tipico delle produzioni della Factory, e ti chiedi, a causa del medium con cui viene proiettato il filmato, o nel caso di Andy Warhol, a causa dell’assenza di montaggio, se l’accaduto abbia una matrice cinematografica oppure no.
La Videoarte, e il cinema di Any, conducono ad una dimensione al limite del surreale, perché non c’è un intento narrativo, non c’è un montaggio a scopi cinematografici, ma c’è il supporto su cui proiettare, al fine che esso sia parte integrante dello scopo del prodotto, c’è l’innovazione tecnica intesa come sperimentazione e sopratutto, nonostante la mancanza di sceneggiatura, emerge comunque un messaggio, che è quasi sempre una critica o una constatazione profetica.
Warhol, da pioniere e contemporaneo dei primi esponenti di questa forma d’arte, ha consacrato un modo di comunicare agli antipodi della sua idea di Pop Art, nonostante sfrutti le ragioni che vi sono alla base, ossia il progressivo bisogno della società di desiderare di più, allontanandosi dai propri bisogni e dalla propria natura, arrivando a destrutturare l’approccio fisico stesso.
Che sia stata sua intenzione o meno utilizzare ciò che lo ha reso famoso come matrice per un messaggio artistico innovativo, non ci è dato saperlo. Possiamo solo rendere omaggio al pioniere, al pubblicitario, al fervente cattolico praticante, all’omosessuale, al sopravvissuto ad un tentato omicidio, al deceduto durante un banalissimo intervento chirurgico alla cistifellea, il 22 febbraio del 1987.
Il genio è una scintilla meteorica che passa raramente vicino al genere umano, tanto da sfiorarlo, ma quando lo fa, in momenti della storia in cui la società è pronta ad accogliere quel che hanno da offrire, ciò che resta è più di una testimonianza, è una tendenza.
Nel futuro, tutti saranno famosi per 15 minuti.
– Andy Warhol