Martin Scorsese, interrogato sulla scomparsa di Stanley Kubrick avvenuta il 7 marzo 1999, enunciò l’ultima verità assoluta da inserire tra i capisaldi irremovibili della storia del cinema. Disse, con un’enfasi degna di un conoscitore così profondo della storia della settima arte quale è, che nulla sarebbe più stato lo stesso, perché non ci saranno altri film di Stanley Kubrick. Certo, sentire parlare Scorsese equivale a sentir parlare qualcuno che della propria materia ha fatto un invasamento, quasi quanto Tarantino, ma la verità è che l’italoamericano ha tremendamente ragione.
Kubrick ha reso un servizio al cinema che nessuno ha potuto equivalere, fino ad oggi. Tredici lungometraggi, realizzati dal 1953 al 1999, quattro progetti mai realizzati, tre cortometraggi. Considerato che questo è il più grande testamento cinematografico di sempre, per valore tecnico e virtuosismo registico, sembra quasi un paradosso che gli siano serviti quasi cinquant’anni di carriera per creare circa un progetto e mezzo ogni dieci anni. Nella storia delle arti, solo un altro genio apparentemente sociopatico ha fatto qualcosa di simile e si chiamava Ludwig van Beethoven.
L’influenza kubrickiana è stata evidente e dilagante in ogni genere cinematografico. Citare i nomi di chi ha raccolto la sua eredità è trascurabile, perché bisognerebbe censire tutti i cineasti attivi da 2001: Odissea nello Spazio in poi e considerare la lista la citazione completa di chi, anche senza saperlo, è stato un esponente della rivoluzione scatenata da Stanley Kubrick. Una rivoluzione invisibile ma inevitabile e con un peso percettibile, evidente, necessario. Woody Allen stesso, concordando col solito Scorsese, ha stabilito quale fossero i capitoli della storia del cinema. Secondo loro, infatti, essa si divide in prima e dopo 2001.
L’unico da poter considerare a parte è Steven Spielberg. Non tanto per eredità artistica, quanto per il rapporto unico instauratosi tra i due nel corso degli anni. Invecchiando, Kubrick era diventato sempre meno prolifico e sempre più recluso, isolandosi dalla realtà nel proprio bozzolo domestico, tranne che con alcuni collaboratori, Spielberg in particolare. A lui si devono la realizzazione di A.I., progetto sviluppato da Kubrick nel corso di vent’anni, ma mai realizzato per i limiti tecnici che il cinema Anni ’80 e ’90 ponevano alla messa in scena delle immagini desiderate dal regista, e la conclusione del montaggio di Eyes Wide Shut, film che più di tutti avrebbe rappresentato lo stile kubrickiano ma che ha pagato delle scelte di produzione postume, che non lo rendono il testamento artistico voluto dal defunto.
Spielberg e Kubrick ebbero degli scambi di idee prolifici nel corso degli anni, l’americano sostenne e motivò l’austriaco a rimettersi in gioco dopo Full Metal Jacket ma allo stesso tempo gli intralciò il cammino. Aryan Papers, film sull’Olocausto ebraico, sarebbe dovuto diventare il più realistico mai realizzato, ma nonostante fosse in procinto di iniziare le riprese, l’uscita di Schindler’s List pose Kubrick in uno stato di incertezza e depressione tanto profonde da fargli cancellare il progetto.
Un destino simile toccò anche vent’anni prima a Napoleon. Finito Arancia Meccanica, Kubrick si dedicò alla più grande raccolta di materiale biografico su Napoleone Bonaparte, spendendo anni di lavoro nella produzione della miglior sceneggiatura possibile che raccontasse la vita epica del francese, preparando costumi, scenografie, piani di produzione e ingaggiando Jack Nicholson per la parte principale. L’uscita di Waterloo, film sulla storica battaglia, causò a De Laurentiis una perdita di denaro talmente grande che Universal e MGM decisero senza ripensamenti di non voler rischiare un destino simile, essendo il film di Stanley Kubrick sullo stesso tema e il progetto non vide mai la luce. Fu però lo stesso Spielberg ad utilizzare gran parte del materiale prodotto per Napoleon nel suo documentario del 2014 sul generale francese.
Morto diciannove anni fa, all’età di settant’anni, Stanley Kubrick ha portato alla ribalta un’idea di cinema basata sulla ricerca della perfezione assoluta, perseguita con un’ossessione grande tanto quanto il suo genio e riuscita in ogni suo intento grazie all’ingrediente comune di ogni suo film: la fallibilità dell’essere umano, nello spazio, in guerra, nell’orrore, nei desideri della carne, nel colossal, nella commedia nera, tra i gangster, nel futuro e nel passato. In tutti i generi cinematografici, insomma.
La poetica di Stanley Kubrick è la natura stessa dell’uomo
Tredici film non sono bastati a Kubrick per esprimere, tranne ne Il Bacio dell’Assassino, qualcosa che fosse simile ad un finale leggero. I suoi racconti, adattamenti di opere letterarie, finiscono male. Il Dottor Stranamore ci porta nella guerra nucleare, Barry Lyndon mostra uno scalatore sociale dal cuore impavido rimanere senza gamba e povero, Shining spacca in mille pezzi il concetto di famiglia, Eyes Wide Shut non è da meno, Arancia Meccanica porta la narrazione a tifare per un malvagio tornato nel suo migliore stadio di cattiveria, Orizzonti di Gloria fa tornare un plotone malinconico a morire in trincea dopo aver assistito ad un’esecuzione. Solo 2001 resta ottimista, ma perché sfiora concetti talmente ancestrali ed estranei alla natura umana da non coinvolgerla così profondamente, tranne durante la sequenza degli albori, quando le scimmie si massacrano.
Non che Stanley Kubrick avesse qualcosa in contrario alla bontà umana, lui stesso, conoscitore dell’animale umano, predicava la conservazione di ciò che ci rende positivi per i nostri simili. Il fatto è che ne era totalmente sfiduciato. Si potrebbe definire il messaggio finale della sua cinematografia come un concetto vicino al fatto che “l’uomo è fallibile”. Non per nulla, ogni suo film mette in risalto delle buone intenzioni condotte al fallimento più violento, a causa della natura caratteriale dei personaggi stessi. Non c’è alcuna speranza, si finisce sempre nel modo peggiore e in modi sempre diversi, che fanno ristagnare la natura dei protagonisti all’interno dei loro stessi limiti, istintivi, razionali, di principio o come nel caso di Shining, una naturale tendenza alla debolezza e alla violenza.
La fallibilità dell’uomo sembrava stargli a cuore sin dall’inizio della carriera. Paura e Desiderio, sebbene se ne vergognasse e anni dopo abbia voluto fare di tutto per togliere di mezzo il film d’esordio, rappresenta alla perfezione i suoi temi più cari: la strumentalizzazione delle donne, il sesso che ne deriva, la guerra, la violenza del combattimento e sopratutto l’assenza di un vero nemico contro cui lottare, perché il nemico, e nel film lo dichiara visivamente, siamo noi.
Ha espresso il concetto andando a scavare dentro ogni genere cinematografico, in ogni circostanza sociale e in maniera cronologica, dagli albori della storia dell’umanità, fino al futuro. È partito dalla preistoria in 2001, dove l’Australopiteco capisce come organizzare la struttura sociale grazie al dono del pollice opponibile e quindi del potere di modificare l’ambiente circostante, attraverso le percosse a morte. Fa un salto di qualche millennio per parlarci dell’epoca più prolifica dell’antichità, ossia l’Impero Romano, in Spartacus, dove analizza il primo caso di emancipazione sociale autodeterminato, quello della rivolta, soppressa con le crocifissioni.
Sempre saltando qualche secolo, finisce nel periodo storico a lui più caro, perché vicino alle sue teorie sulla fallibilità, ossia l’alba dell’Illuminismo, con Barry Lyndon, dove un giovane pieno di ardore e grandi valori finisce per scegliere la strada della scalata sociale, arrivando vicino al suo obiettivo di sistemarsi a vita, se non fosse per uno scatto di violenza tipico del suo temperamento giovanile, che gli costerà il ripudio di tutta l’aristocrazia. Sorvola l’800 per arrivare alla Prima Guerra Mondiale in Orizzonti di Gloria, consacrando uno stile registico mai visto prima, con carrellate dinamiche interne alle trincee, panoramiche sui campi di battaglia, profondità di campo ipnotiche, per mostrare come mai fatto prima la realtà di quello scontro bellico, iniziato con l’intento di conquistare terreno come se si trattasse di andare a caccia e finito con milioni di morti.
Si dedica al racconto del suo presente col casuale ma misero fallimento di una rapina progettata nei minimi dettagli in Rapina a Mano Armata, traspone Lolita su pellicola, anche se il montaggio finale sarà qualcosa di più simile ad un film opposto a quello realizzato originariamente, a causa del buoncostume, in cui parla di un desiderio carnale raccapricciante di un adulto per una dodicenne per nulla innocente, finito con la morte di entrambi. In maniera specifica, analizza la situazione politica dell’epoca ne Il Dottor Stranamore, dove il cast recita un copione che fa sbellicare, per tingere di umorismo nero una commedia che finisce, a causa delle manie guerrefondaie e maschiliste di un generale statunitense (riferimento a personaggio realmente esistito), con lo scoppio della guerra nucleare.
Stanley Kubrick parla del Vietnam, come nessun fece prima, chiudendo Full Metal Jacket con una squadra della morte che canta il tema di Topolino come se oramai la guerra avesse posto le dinamiche sociali su un piano del tutto alienato, lontano dalla ricerca dell’equilibrio, oramai diventato una dimostrazione di violenza. Fa una piccola parentesi temporale, anche se è quella col significato più terrificante, in Shining, raccontando con una precisione quasi prospettica il disfacimento di una famiglia a causa delle debolezze di un padre che anziché proteggere i propria cari, senza rendersene conto, cercherà di farla a pezzi con l’accetta.
Finito di analizzare il presente con Eyes Wide Shut, opera omnia in cui parla del sesso e delle incomprensioni come causa dei matrimoni sfasciati, citando ogni sua opera passata, Kubrick si lancia nel futuro con Arancia Meccanica. Qui la società di un ipotetico 1995 è una rappresentazione del fallimento dell’istruzione scolastica, dei giovani allo sbando, di un protagonista adolescente con una mente sottile e geniale, sfruttata per fare del male col gusto dell’ultraviolenza. Il governo, cruento quanto lui, lo interna imponendogli una cura che lo renderà innocuo, ma anche vulnerabile, e dopo aver subìto le violenze per cui era stato internato, si procura un trauma cranico che lo riporterà ad essere quello di sempre, esaltando il fallimento della cura, indotta con violenza per sedare la violenza stessa.
L’ultimo capitolo del viaggio lo fa sempre con 2001, da cui era partito. Sebbene il finale sia ottimista e interpretabile, il percorso per arrivarci è un horror ambientato nello spazio. Qui l’uomo fallisce nella maniera peggiore di tutta la filmografia di Stanley Kubrick. Ogni film vede gli uomini cedere al fato, al peso della propria natura. Nello spazio e nel futuro invece, gli umani sembrano aver superato alcune convenzioni ed hanno creato una trasposizione di loro stessi, precisa, efficiente, inflessibile e compatibile con la nostra specie: il computer. Quello di bordo, HAL9000, collabora con l’equipaggio, ma lo spia segretamente. Opera con malizia, coprendo i propri errori tecnici, dovuti a dei difetti meccanici, ingannandoli per evitare di essere spento o messo da parte.
L’intelligenze artificiale agisce in base al proprio ego, ha un vero e proprio istinti di sopravvivenza emancipato dalla codardia, finendo per uccidere quasi tutti pur di non essere terminato. Alla fine, anche ciò che dovrebbe rappresentare le capacità umane di gestire delle funzioni, in maniera del tutto distaccata, cade nelle decisioni tipiche della nostra specie pur di restare in vita, sacrificando gli altri a suo vantaggio. Un fallimento tracotante e violento, appunto, evitato solo grazie all’intervento umano, che debellerà HAL, ma che comporterà una morte che ancora oggi i critici e i registi cercano di interpretare.
Dopo diciannove anni dalla sua scomparsa, avvenuta nel sonno per un infarto, anche se non mancano le teorie che lo vorrebbero terminato a causa del suo coinvolgimento col finto allunaggio, l’affresco antropologico offertoci da Stanley Kubrick è e sarà per sempre la miglior enciclopedia storica sull’uomo, la sua natura, il perché compie ciclicamente i suoi errori, li subisce e non ne impara mai la causalità. Kubrick denigrava l’umano, lui stesso era qualcosa di estremo, a volte lontano dalla natura della sua specie, ma è chiaro come la sua poetica sulla fallibilità altro non sia che un grido lanciato attraverso le generazioni, per salvaguardare quel che abbiamo di più caro, il sentimento umano.
Tutti riconoscono che lui sia stato il migliore, ma penso che anche questo non sia abbastanza.
– Jack Nicholson
Per vedere la miglior panoramica mai realizzata su Stanley Kubrick, vi invitiamo a guardare il documentario sulla sua vita, A Life in Pictures.