Dopo aver interrotto il suo prepensionamento forzato (e auto-inflitto) con Logan Lucky, Steven Soderbergh ritorna ancora una volta in modo inconsueto con un film prima girato in segreto e poi presentato ufficialmente lo scorso febbraio durante il Festival di Berlino: Unsane.
La particolarità dell’opera, al di là della sua gestazione nascosta, è di essere stata interamente girata con IPhone 7 Plus, in 4k, usando l’applicazione FiLMiC Pro, cosa che ha permesso al regista di montare le scene spesso l’attimo dopo averle filmate, mentre ancora erano tutti sul set. Le stesse riprese sono durate pochissimo, soltanto una settimana.
Nonostante il profilo low budget, gli attori che vi prendono parte non sono degli esimi sconosciuti, a cominciare da Claire Foy, nota al grande pubblico per essere la giovane Elizabeth II nella fortunata serie Netflix The Crown e completamente irriconoscibile nei panni della protagonista, Sawyer (sic!) Valentini; passando per Amy Irving (la madre di Sawyer), Juno Temple (Violet, un’altra paziente internata); fino ad arrivare ad un cameo dell’immancabile attore feticcio di Soderbergh, Matt Damon (un detective che mette in guardia la donna). Completano il cast Joshua Leonard (lo stalker David Strine), non nuovo a progetti particolari, avendo iniziato la sua carriera con The Blair Witch Project, e Jay Pharoah (Nate), rapper e attore di Saturday Night Live.
La ricerca di innovazione estetica non maschera i difetti della trama
Unsane si impone fin da subito come un film in cui l’impatto visivo è accuratamente studiato. Le prime immagini, di un bosco, quasi indistinto, sono fortemente virate sui toni del blu, mentre la voce narrante ricorda, appunto, che
“eri vestita di blu la prima volta che ti ho vista, quindi ogni volta che ti vedo in blu mi ricordo di come mi sono sentito in quel momento”
[“you wore blue that first time I saw you, so anytime I see you in blue it reminds me of how I felt at that moment.”]
Lei, Sawyer (Claire Foy), appare effettivamente vestita di blu, mentre si intravede, come da dietro degli alberi, che diventano una macchia prima scura, poi verde, poi quasi gialla. La seguiamo da lontano, quind cambia la scena e siamo nel suo ufficio: i toni si tingono d’ocra, l’inquadratura è lievemente distorta, frontale, ma con quel focus che sproporziona gli elementi centrali, ingrandendoli, come quando ci si fa un selfie.

Le distorsioni rispetto al punto di vista da cui si inquadra, l’utilizzo di colori freddi, stile il filtro “istantanea” degli smartphone, le prospettive dal basso, come quando Sawyer è al telefono con la madre, il primo piano con sguardo in camera, come se fosse ripreso in soggettiva, di quando è a colloquio con la terapeuta: tutto contribuisce, fin dai primi istanti del film, ad evidenziare la ricerca estetica di Soderbergh e il suo tentativo di esplorare tutte le potenzialità artistiche che l’inconsueto mezzo utilizzato per filmare può offrirgli.
L’iPhone appiattisce la profondità di messa a fuoco dell’immagine senza perdere la chiarezza, creando un effetto disorientante, come se ci fosse qualcosa di profondamente sbagliato senza che sia perfettamente chiaro cosa. Contribuisce, inoltre, per l’ovvia impossibilità di campi eccessivamente ampi, ad ampliare la sensazione claustrofobica che ben si sposa con la trama di Unsane.
La protagonista ci appare in prima battuta come una giovane donne piuttosto sicura di sé, di professione analista finanziaria, sbrigativa con i suoi clienti, non particolarmente socievole con i colleghi, ambiziosa ma attenta a non farsi importunare dal capo. Parla con la madre, lontana, si è trasferita da poco, di sera per svagarsi prende appuntamenti via Tinder. Solo la reazione inattesa che ha quando il tizio con cui è uscita e che ha invitato a casa sua gli dà un semplice bacio ci fanno capire che qualcosa non va.
Il giorno dopo, si rivolge ad una terapeuta. Si scopre che ha dovuto cambiare città perché era vittima di uno stalker, che non si è ripresa, che lo vede ovunque, anche se, molto lucidamente, è consapevole che sia la sua “nevrosi che collude con la [sua] immaginazione per dare vita alle [sue] peggiori paure”. Per contribuire attivamente a far sì che il suo livello già abbastanza alto di stress si impenni, la terapeuta – inspiegabilmente – decide che l’aver accennato a “non farcela più” e ad avere avuto, saltuariamente, dei pensieri suicidari possa ritenersi motivo sufficiente per tenerla per un giorno in ricovero forzato. Un giorno che diventa, nel caso la paziente perda le staffe, una settimana. E che quindi regolarmente lo diventa, una settimana, visto che essere forzatamente ricoverati in una struttura psichiatrica quando ci si è recati per un semplice consulto tende a far perdere le staffe anche a pazienti meno stressati di lei.

Fin qui, Unsane potrebbe, da uno spunto pur non originale e già molte volte visto, stupirci come fa in campo visivo. Purtroppo, però, all’innovatività dimostrata nelle tecniche di ripresa e nella scelta delle inquadrature non fa seguito una pari abilità a livello di scrittura. Non solo iniziano a fioccare i dejà-vu – e vengono in mente tutti i vari Ragazze Interrotte, Qualcuno volò sul nido del cuculo, Il corridoio della paura, tanto per fare qualche nome. Ma lo script inizia davvero a vacillare, molto più della sanità mentale di Sawyer.
Si fa tentare dal diventare opera di denuncia sociale, presentando l’internamento forzato del tutto ingiustificato della protagonista come un escamotage delle assicurazioni per farsi rimborsare ai danni di cittadini sani deliberatamente trattenuti per cure non necessarie, e introduce per rafforzare la sottotrama un personaggio che in finale si rivelerà essere un giornalista infiltrato (esattamente come ne Il corridoio della paura, guarda caso). L’influenza Ragazze Interrotte è evidente nella figura di Violet, interpretata in modo un po’ stereotipato da Juno Temple.
Ma dove davvero i deficit della trama si fanno palesi è nell’introduzione dello stalker, che virtualmente non dovrebbe capirsi se sia effettivamente nell’ospedale o nella testa di Claire Foy – ma che oggettivamente, come potrebbe essersi davvero fatto assumere nell’arco di 24h (il tempo in cui inizialmente doveva restare ricoverata Sawyer), prendendo l’identità di un’altra persona (selezionata e uccisa appositamente per lo scopo), per avere giusto quel lavoro che poteva aiutarlo a stare a fianco alla sua vittima? Che, peraltro, ha deciso da un giorno all’altro, dopo un appuntamento non andato a buon fine, di rivolgersi ad una terapeuta e, apparentemente, per puro caso le ha parlato dei suoi propositi autodistruttivi (avrebbe potuto non farlo). La terapeuta, dal canto suo, per eccesso di scrupolo ha deciso di internarla, ma ciò è stato possibile anche perché la protagonista ha firmato distrattamente dei fogli senza semplicemente andarsene dopo il consulto.
Quindi, in pratica, Joshua Leonard, che interpreta il molestatore, avrebbe dovuto essere un preveggente – al minimo – per potersi organizzare con così poco preavviso e riuscire ad inserirsi – nel momento giusto, quando cercavano di assumere, per il posto giusto – nella clinica dove si trovava Sawyer. Eppure.

Anche il carattere della donna appare alquanto inconsistente: si presente come estremamente forte, si scopre fragile, viene reclusa contro la sua volontà e – a dispetto di ogni logica – più le circostanze peggiorano meno si mostra debole: là dove l’equilibrio psichico dei più avrebbe traballato, il suo ritrova vigore (e il contrario, perché lasciarsi aperte le possibilità è spesso la migliore opzione quando non si riesce a definire credibilmente la strada da far prendere al copione).
Un’ulteriore pecca – che per non incorrere in SPOILER possiamo solo vagamente accennare – è che la consueta modalità di narrazione alla Soderbergh, in cui lo spettatore è posto sullo stesso piano del narratore onnisciente, è ancora una volta utilizzata, ma forse in questo caso non è la scelta più opportuna ai fini del mantenere la suspense.
Bilancio finale di Unsane
Claire Foy è bravissima, bisogna sforzarsi per ricordare il suo ruolo di insicura regina di Inghilterra rispetto alla donna determinata e piena di risorse che interpreta qui. Il suo viso, inquadrato spesso in primi piani ravvicinati, esprime tutte le sfumature e le variazioni anche lievi della sua sicurezza – dall’incredulità, al sospetto, al timore, alla rabbia, all’impotenza e ancora. Il resto degli attori sono fortemente limitati dalla marginalità dei loro ruoli – tra cui si distinguono in parte quello di Nate e il consueto e già ricordato cameo di Damon, che ultimamente pare applicarsi a fondo per diventare un caratterista (riuscendoci).
Nel complesso il film si lascia guardare, anche se uno sforzo maggiore a livello di sceneggiatura sarebbe stato necessario – anche solo per eguagliare quello fatto a livello visivo e di realizzazione. Unsane non è stato il primo e non sarà l’ultimo lungometraggio girato con smartphone, come ha dichiarato lo stesso Soderbergh. In questo caso, però, emerge ancora molto il gusto dell’esplorazione sperimentale, che prende un po’ il sopravvento sull’attenzione al risultato finale. Peccato.