Bizzarro. Durante la sua lontananza, Kevin Spacey ha ricevuto incessanti attacchi da tutto il mondo dello spettacolo e da quello digitale, finché lo scorso Natale, con Let me be Frank, ha finalmente rotto un silenzio che durava da molto tempo, vedendosi affibbiare dagli anglofoni un termine che ancora oggi riecheggia su internet: bizzarro. Tutt’ora, con l’uscita di The Boxer, la poesia di Gabriele Tinti che ha permesso a Spacey di fare capolino dal suo nascondiglio, le testate estere gli dedicano articoli con cui definiscono la performance che l’ha riportato alla ribalta, appunto, bizzarra. Ai riconoscitori di un valore artistico, quel che appare bizzarro è l’incapacità di una fetta di opinione pubblica ad abbandonare la convenienza, tornado ad essere semplici spettatori in grado di apprezzare ciò che salva il genere umano dal fallimento: l’arte e le sue manifestazioni. Kevin Spacey è un Maestro, come lo ha definito Tinti durante la presentazione; chi lo nega o è un bugiardo, o non sa di cosa sta parlando.
Ad avvalorare questo dato di fatto ve n’è un altro, che è lo stato di forma con cui Spacey si è presentato al suo pubblico, senza la minima sbavatura nell’esecuzione. Dopo anni di esilio, chi poteva tornare alla ribalta in maniera tanto impeccabile se non il miglior attore del mondo? Quel mondo intero che si è aspettato un vacillamento, un segno di insicurezza, almeno di fronte alle centinaia di avventori che hanno richiesto a gran voce di esaudire un desiderio senza prezzo; quello di poterlo rivedere all’opera, di vederlo esaltarsi, come un pugile che dopo un incontro passato ad incassare, riesca a rimettersi in piedi, a resistere ancora facendosi sotto accorciando la distanza, fino a sganciare un pugno così ben assestato da mandare al tappeto un avversario imponente come l’opinione pubblica.
Un pugno dato così bene da essere rivissuto al rallentatore da tutti coloro che l’hanno visto sferrare, e che solo un pugile esperto come Kevin Spacey poteva schiantare in faccia ai media. Oltre alla magnifica forma con cui Spacey si è presentato all’evento, quel che più di ogni altra cosa ha assunto una valenza non quantificabile è stata la sua performance. Averlo visto per l’ultima volta in Let me be Frank, interpretazione risalente al Natale scorso, non ha in alcun modo influito sulla pura percezione di The Boxer. Le centinaia di presenti infatti, al di là di qualsiasi tipo di pubblicazione giornalistica volutamente fuorviante letta negli ultimi due anni, sono stati travolti da un’interpretazione che ha convinto tutti di un solo inconfutabile dato di fatto. Di fronte, senza la minima sbavatura, c’è stato l’immutato talento attoriale di Kevin Spacey, quello che durante House of Cards ci teneva incollati allo schermo; quello che, a Roma, ha posto la domanda più scomoda e disarmate che un uomo col suo vissuto potrebbe scagliare ad una platea:
La vita non è uno spavento per chi non l’ha mai rischiata. Chi mi può capire? Con chi posso ancora parlare?
Averlo in scena a pochi passi davanti a noi, nella penombra della saletta o nell’aula esterna, ci ha fatto vivere una sensazione rara anche per alcuni grandi interpreti: di fronte a noi c’era solo il suo personaggio, magnetico, incalzato, perfetto, quello di un pugile che attraverso Kevin Spacey ha ripreso vita e ha concesso ai presenti un privilegio inestimabile, rivederlo in perfetto stato di forma, capace di contenere in una sola interpretazione diversi elementi cardine del suo arsenale. Aver inserito questo evento nella cornice di un contesto sociale come quello italiano, ha accresciuto il suo valore, poiché il pubblico di questo paese fa parte di quella maggioranza di spettatori che nonostante i tentativi dei detrattori, non hanno mai cambiato opinione sull’operato di Spacey, e l’accoglienza riservatagli sia a Palazzo Massimo che per le strade di Roma è stata la stessa, identica e numerosa che gli si dedica da sempre, con ancora più stima e calore umano.
Le analogie biografiche tra l’artista e il poema sono saltate all’occhio di tanti, ma giudicando solo quel che ci interessa, l’arte, col Pugile di Spacey abbiamo goduto della summa drammatica della sua poliedricità d’attore. A tratti, quel che si scorge è una vasta quantità di riferimenti alla sua esperienza professionale: in apertura è stato Shakespeare – con tutta l’esperienza maturata in anni di direzione dell’Old Vic e una grande dose di Riccardo III – nel durante un Underwood ferito e consapevole – distante da quello quasi minaccioso, consumato dal livore di Let me be Frank – in chiusura un finale di American Beauty ambientato nel 329 a.C., col Pugile che si ritrova in un luogo pieno di amore e piacere, vedendosi per l’uomo che è, proprio come Lester Burnham non riusciva ad essere arrabbiato col suo nefasto destino, per via della bellezza che c’è al mondo.
Palazzo Massimo gli ha inoltre permesso di essere al centro di tipologie di rappresentazioni che già di per sé racchiudono e la tradizione teatrale; di fianco alla scultura è stato un Kammerspiel, quel teatro privilegia l’analisi intimistica e psicologica, curata come se fosse sotto una continua lente d’ingrandimento, mentre al di fuori, in mezzo alle centinaia di presenti, è stata quasi una rappresentazione del mito a gita, il più antico, tra gli elementi stessi dell’anfiteatro dove il personaggio si presenta per quello che è senza potersi difendere dagli occhi del pubblico. Due tipologie antiche e nuove, sfruttate da Kevin Spacey per regalare due interpretazioni degne del suo talento e del poema di Gabriele Tinti. Una congiunzione, quella creata da The Boxer, tra le vicende dell’uomo e la virtuosità della sua arte. Emozionante, vibrante, esaltante. Arte al di sopra dell’artista, un artista al di sopra di sé stesso e al di là del tempo. Riguardate la performance, riassaporate il suo immutato talento. Welcome back Maestro, we missed you.
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