Da qualche giorno è disponibile su Netflix una nuova miniserie di 8 episodi intitolata The Serpent. Uno show che ripercorre la storia di un pericolosissimo uomo che negli anni’70 commise numerosi omicidi nel sud-est asiatico, in quella che era la rotta degli Hippie. Il suo nome è Charles Sobhraj.
The Serpent segue, passando dal presente della vicenda al passato, numerosi degli omicidi che l’uomo e i suoi due complici Marie-Andrée Leclerc e Ajay avrebbero compiuto negli anni, Un modus operandi che consentiva al trio di guadagnarsi la fiducia delle vittime prima di drogarle e ucciderle, utilizzando i loro passaporti per potersi muovere indisturbati e i loro soldi per continuare a mantenere il loro stile di vita. Charles prendeva di mira Hippie e saccopelisti in viaggio, persone dalla mentalità libera che l’uomo riusciva a manipolare con freddezza e abilità, facendosi passare per un amico, quasi un salvatore, prima di concludere prematuramente la loro vita.
Dall’altra parte della scacchiera troviamo un diplomatico olandese, Herman Knippenberg, che partendo da un caso di 2 ragazzi scomparsi si ritroverà ad affrontare una battaglia personale che lo vedrà contrapposto al killer, una sorta di corsa tra gatto e topo con Charles in fuga e il giovane olandese (aiutato da poche persone) a mettergli il fiato sul collo.
Una serie sicuramente ben fatta e curata, ma che forse amplia un po’ troppo quello che è il raggio del racconto, allungando la storia con le ultime ore di alcune delle sue vittime, andando a riprenderne le fila a ritroso nell’arco temporale, spezzando il ritmo della narrazione. Secondo noi, con una narrazione anche solo leggermente più asciutta o ancora più focalizzata su quella che era la follia omicida di Charles Sobhraj e sull’efferatezza dei suoi atti, l’intera miniserie avrebbe potuto giovarne maggiormente dando ancora di più l’idea di quello che era il reale carisma dell’uomo e il suo “potere”.
Un prodotto tecnicamente perfetto, basato su una storia ricca, ricchissima di potenziale su cui lavorare, ma su cui si è deciso di lavorare con un approccio forse troppo banale e quasi standardizzato, intenzionato a non esaltare la figura di un “mostro” ancora oggi in vita.