Monkey Island – Storie di Pirati, Insulti e Scimmie
C’è stato un tempo tra gli anni 90 e i primi del 2000 in cui ho finalmente avuto un PC tutto mio.
Non dovevo dividerlo con mio padre e non dovevo chiedere a mia madre la password (che puntualmente si scordava).
Non fui uno di quei ragazzi che poterono giocare con l’Atari, con l’Amiga, col SegaSaturn o con qualunque altra console (Nintendo 64 compreso) uscìta all’epoca. Avevo un PC. Basta.
Era mio e con esso arrivarono i primi giochi.
Command&Conquer e Red Allert. Con un padre militare, non poteva essere diverso.
Crebbi per qualche anno solo sparando ai soldati, conquistando basi e scoprendo Age of Empires.
Poi durante un mercatino dell’usato, scorsi un videogioco dalla scatola mezza mangiata da qualche roditore: Monkey Island 3.
Lo presi, lo installai e mi ci rotolai dal ridere per ore, tante quante usai per imprecare contro gli enigmi.
Iniziai la celeberrima saga di Guybrush Treephwood dal terzo capitolo, per poi andarmi a cercare i primi due con l’emulazione del sistema Scumm e quindi amarli allo stesso modo, se non di più.
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Cosa è Monkey Island?
Un’avventura grafica creata dalla ormai defunta LucasArts ed estratta dal genio di Rob Gilbert.
Un gioco che ha segnato un’epoca, che ha lasciato attoniti i fan i più di un’occasione per i colpi di genio, per le battute da metagioco (vi basti pensare che ogni volta che qualcuno nomina l’isola di Monkey Island i personaggi usano il TM per indicare anche il copyright. Geniale), per le musiche immersive e mai fastidiose.
Tutta la storia ruota attorno al nostro amatissimo biondino, Guybrush, che vuole diventare un pirata.
Il gioco, il primo, inizia così e basta. Non sappiamo da dove venga, non sappiamo chi sia la sua famiglia, non sappiamo NULLA. Lui entra in scena e palesa a noi, perché guarda lo schermo, che vuole diventare un pirata.
E da quel momento ha inizio una delle avventure più divertenti e demenziali degli anni 80/90.
- Pills –
Sapete da cosa deriva il nome Guybrush? I creatori del gioco non avevano idea di come chiamare il protagonista, così affidarono al suo file il nome “Guy”, cioè “tizio”. All’epoca, però, l’estensione del file era .brush, quindi il file del protagonista era “Guy.brush”. Lo trovarono abbastanza divertente da decidere di renderlo il nome effettivo.
- Pills –
Quindi lo portiamo fino al Bar Scumm ( lode al sistema che faceva, e fa ancora oggi, girare queste avventure grafiche) dove tre Capi Pirata gli assegnano tre prove da superare per diventare davvero diventare uno di loro: Scherma, Furto e Caccia al Tesoro. Non scendo in troppi dettagli, ma vi snocciolerò in breve che per la prima dovremo andare in giro per l’isola ad imparare insulti da lanciare ai nostri avversari, per la seconda dovremo vedercela con terrificanti barboncini-piranha e per la terza…il gioco deciderà di prenderci davvero in giro. Davvero.
Faremo la conoscenza del Governatore Marley, del temibile Pirata LeChuck (che diventerà il nostro acerrimo nemico per tutta la saga), del Maestro di Spada Carla, di Due Ganci, di Otis, di Stan, di Voodoo Lady, di Herman Toothrot e di moltissimi personaggi che, durante i vari giochi, ci accompagneranno e si faranno amare piano piano.
Salpare, perché Big Whoop non è mai Distante
Monkey Island non è soltanto un videogioco dalla grafica retrò con enigmi e battute continue. Monkey Island è un’avventura. Lo è per Guybrush quanto per noi. Noi che ci imbarchiamo con lui per un tesoro leggendario, o per salvare qualcuno, o per creare una bambola voodoo o per causare un’eruzione vulcanica buttando nella lava del formaggio. Già.
Tutto il gioco è colmo di un’atmosfera ben studiata per farci immergere all’interno di un mondo piratesco funzionante, sebbene a volte demenziale. Volutamente tale, però. Ed a volte è perfino la parodia delle avventure grafiche stesse, come quando Guybrush si infila in tasca un cane. UN CANE. E mica un carlino, un grosso cane da caccia dalle guance cadenti e gli occhi coperti. Il suo commento? “Ho ancora un sacco di spazio. Per fortuna ho l’inventario largo.” E questa è una strizzata d’occhio bellissima a tutti noi giocatori che ci siamo sempre chiesti “ma come diavolo fa a ficcare nelle tasche tutta quella roba?”
I primi due capitoli della saga sono stati curati da Ron Gilbert, cosa che non è accaduta per quanto riguarda il terzo ed il quarto, ed ha partecipato come “curatore della storia” al quinto edito dalla TellTale e questo si sente tantissimo. Per fortuna.
A valutazione, avendo io iniziato proprio con il terzo, non posso non portarlo nel cuore e difenderlo a spada tratta per quanto indubbiamente messo a confronto con i primi due (soprattutto col primo) abbia perso molto dello smalto iniziale. Le risate ci sono, la storia va avanti, LeChuck è un avversario bellissimo da affrontare e l’introduzione di Murray è il motivo per cui ho adorato alla follia questo gioco.
Il Quarto è…il quarto. Sviscerare in quel modo la natura di Monkey Island per renderlo l’ombra di sé stesso varrebbe già di per sé l’inferno. Guybrush è una macchietta umoristica che non fa ridere, tutto è denaturalizzato e quel dannato Monkey Kombat è l’aberrazione massima. Forse l’unico punto interessante è l’inserimento di una buona porzione della vita di Herman Toothrot, ma basta. L’ilarità è ridotta al minimo perché, sebbene il demenziale permanga, è di quello che ti fa inclinare la testa confuso piuttosto che farti rotolare dalla sedia dal ridere.
Il Quinto capitolo è un salvataggio ben riuscito per quanto non potrà mai far tornare la saga agli antichi fasti. L’impronta di Gilbert e Grossman si sente, la trama è solida ed i colpi di scena ti fanno stare attento, le battute ti colpiscono come una cannonata ed i personaggi li ami tutti (tranne quel medico francese che per tutte le idiosincrasie levatelo da davanti ai miei occhi). Forse l’unica cosa che manca davvero è quella scintilla di piratesco puro che caratterizzava i primi episodi, quell’atmosfera è andata a perdersi del tutto col quarto capitolo, sebbene il terzo avesse cercato di tenerla ancora coi denti.
Speriamo tutti in un sesto episodio. Tutti.
Perché dopo il finale del 5, vogliamo sapere tutti che diavolo voleva la Voodoo Lady, no?
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In soldoni, cosa ha significato Monkey Island?
Un cambio di epoca, di generazione, come lo è stato Harry Potter o Star Wars (ecco che arrivano le pietre).
Ci ha accompagnato per circa 20 anni, dal 1990 al 2009, comprese poi due edizioni rimasterizzate di primi due capitoli, e con Guybrush moltissime persone si sono avvicinate ai giochi ad enigmi. Moltissimi hanno conosciuti Maniac Mansion, The Day of the Tentacle, Indiana Jones, Tony Tough e la notte delle falene arrostite (ok, questo forse lo conosco solo io).
In un mercato popolato alla stragrande maggioranza da giochi di impronta action, dove l’importante è fare punti, Monkey Island insegna ancora oggi (come tutti gli altri giochi succitati e non solo) a valorizzare la risata e l’ingegno. A volte perfino la follia di voler usare una carrucola per scendere da una corda, ma poi per salirci anche. Sì. Con qualunque esperto di fisica che si strappa i capelli.
In Monkey Island non si muore (almeno non per sempre), non si fanno punti, non si hanno achievements, non si campera, non si punta alla rete, non…non si fa nulla se non andare avanti, provare tutto con tutto nei momenti disperati e ridere. Ridere un sacco.
Piangere a volte.
Incavolarsi di frequente.
Sorridere sempre.
Perché è questo che i videogiochi dovrebbero fare. Farci divertire. Entrarci nel cuore e non andarsene mai.
Perché possiamo trattenere il respiro per dieci minuti o combattere come una mucca, ma l’importante è arrivare a scoprire il Big Whoop.
Il top delle avventure grafiche…
Indimenticabile
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